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Carelli Mario - Lamaismo. La Religione del Tibet e della Mongolia

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Libreria Editrice Aseq, Luglio 2016, P. 144

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“Si dà generalmente il nome di Lamaismo alla religione prevalente oggi nel Tibet (cioè nel Tibet proprio, circa un milione di kmq., e nelle due regioni occidentali cinesi abitate da tibetani, Si kang e Tsing hai, quest’ultima popolata anche da Mongoli), nella Mongolia, in parti della Cina, presso i mongoli del Sin Kiang e nelle repubbliche dei Chirghisi e dei Calmucchi. Il lamaismo è una forma di Buddhismo trapiantata nel!’ Asia centrale per opera di missionari indiani appartenenti al cosiddetto ramo settentrionale del complesso buddhista, ovvero alla scuola del Mahayana. La parola Lamaismo deriva . dal tibetano lama (propriamente bLa ma = superiore) colla quale i tibetani designarono i monaci buddhisti del loro Paese. Tuttavia la parola lama non designa tutti i monaci: in senso stretto si chiama lama solo chi è in fama di gran dotto o asceta; mentre i comuni frati si chiamano trapa. Costituiscono oggi il Lamaismo propriamente detto tre elementi fondamentali: I) il Buddhismo come dottrina e prassi sviluppatasi in India fino all’esportazione in Tibet (secolo VII, data leggendaria 632.); 2) i fondi locali prebuddhistiei incorporati poi alla religione prevalente soprattutto nel Tibet (religione Bonpo) e in Mongolia (culto del Ciclo, Tengri); 3) le innovazioni buddhistiche proprie del Tibet, estesesi poi anche agli altri territori, dovute all’opera di Padmasambhava, Tsong kha pa e altri riformatori. Il Buddhismo importato in Tibet era una dottrina già sviluppatasi in India attraverso una serie di dispute dottrinali, di suddivisioni in scuole, di concili ufficiali; e si era già in India diviso, dopo queste vicende, in due scuole fondamentali: la ’strada stretta (Hinayana) e la strada larga (Mahayana) echeggiante la prima le formulazioni più antiche e tradizionali, strette alla parola dei testi riconosciuti canonici, allargantesi la seconda in una visione filosofica e mitologica che fa del Buddha una divinità e finisce per concepire tutto l’universo in funzione del Buddha. Del Mahayana prevalse nel Tibet attraverso i suoi missionari la scuola detta Sunyavada, ovvero del «Vuoto.: l’universo è considerato vuoto di esistenza propria, come una concatenazione di apparenze contingenti, assumendo l’esistenza reale delle quali il pensiero si ridurrebbe all’assurdo. Attraverso una confutazione serrata di ogni ragionamento e del suo contrario Nagarjuna giunse a prospettare l’inconsistenza, l’insostanzialità di tutto quanto si trova nel gran mare dell’essere e predicò la verità «che è giunta alla riva opposta della Sapienza», la Prajnaparamita. È questa dottrina, fiancheggiata da una tecnica spirituale articolatissima, presa in: prestito alla diverse forme di yoga, che. penetrerà nel Tibet col leggendario saggio e missionario Padmasambhava. Come nella teoria ogni contingente viene progressivamente negato, ridotto all’assurdo, trasceso finchè la luce dell’Assoluto non nominabile non definibile ma suggerito e onnipresente albeggia sull’altra riva, così nella pratica religiosa ogni operazione dei sensi, ogni reazione naturale è investita e travolta, trascesa. e incatenata all’opera di «risveglio dei sensi trascendenti» tradizionale allo yoga. Ma qui nel Tibet tale schema dottrinario e tecnico si innesta ai culti preesistenti. Una religione locale antichissima (bon) aveva popolato le valli e i picchi del paese delle nevi d’una fantasmagoria d’esseri dannosi o favorevoli all’uomo, da propiziare o da scongiurare.[…]”

Mario Carelli fu assistente alla cattedra di Religioni e filosofie dell’India e dell’Estremo Oriente all’Università La Sapienza di Roma negli anni in cui fu diretta da Raffaele Pettazzoni; fu collaboratore di Giuseppe Tucci all’IsMeo. Da segnalare anche la sua edizione del Sekoddeśaṭīkā of Naḍapadā (Nāropā). Being a Commentary of the Sekoddeśa Section of the Kālacakra Tantra: The Sanskrit Text Edited for the First Time with an Introduction, in Proceedings and Transactions of the Tenth All India Oriental Conference. Tirupati, Baroda.

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