Una connessione mai interrotta: gli Yanomami e la Natura
Le mie ricerche su questa etnia sono partite da uno spunto molto veloce: volevo scrivere un brevissimo testo, una sorta di recensione al libro “La caduta del cielo. Parole di uno sciamano yanomami” per la newsletter di Spazio Nagual. Mi sono ritrovata invece a dover far fronte a una quantità di materiale così grande e sorprendente ed emozionante che ho deciso di scriverci un articolo per questo blog. Ammetto di essere stata un po’ bloccata ultimamente, l’ultimo articolo risale al nove ottobre scorso, ma ero in attesa di un segnale. Pochi minuti fa questo segnale è arrivato forte e chiaro: mentre leggevo un articolo sul loro rapporto mai scisso con la natura e il modo così rispettoso di conviverci, essendo essi stessi Natura, mi sono commossa, ho sentito il cuore gonfio di gratitudine per una popolazione ancora in parte pura e incontaminata e ho sentito la forte esigenza di condividere tutto questo con altri che, come me, hanno ancora l’ingenua visione di un mondo in cui gli Yanomami siano la maggioranza e non solo una piccola popolazione di 35.000 abitanti. Questa etnia del resto è una delle più numerose e conosciute del Sud America. Vivono nella foresta pluviale amazzonica lungo le colline di confine tra il Brasile e il Venezuela. Ho trovato l’articolo di un etnobotanico inglese, un certo dottor William Milliken - il quale ha avuto la fortuna di vivere per un periodo con questa popolazione – nel quale egli ci spiega le abitudini di vita degli Yanomami. «Essi dipendono da un’ampia varietà di piante della foresta per molti aspetti della vita quotidiana. Le piante selvatiche commestibili, ad esempio, sono utilizzate regolarmente per integrare quelle coltivate negli orti, e diventano particolarmente importanti quando gli Yanomami viaggiano lontano dai loro villaggi. Il legno della foresta è usato per costruire case, utensili e armi, ma anche come combustibile e per molti altri scopi. Varie specie fibrose sono utilizzate per realizzare corde e fasce, per intrecciare cesti e amache temporanee. Mentre da molte altre ricavano tinture, veleni, medicine, pitture per il corpo, tetti, profumi, droghe allucinogene e così via. Effettivamente, a parte i prodotti degli orti, il cotone, la selvaggina, i pesci e, attualmente, qualche manufatto esterno come tegami e coltelli, virtualmente ogni cosa che gli Yanomami utilizzano proviene dalle piante della foresta». Ovviamente le piante sono utilizzate anche per la guarigione e gli Yanomami sanno perfettamente quali rimedi applicare o ingerire in ogni differente caso e tipo di malattia. Ma quello che trovo altrettanto bello è ciò che spiega successivamente il nostro Milliken: «Tuttavia, non è solo una conoscenza utilitarista: gli Yanomami sono grandi osservatori della natura e nel corso di tutta la vita continuano ad accumulare conoscenze sulle complesse relazioni tra piante e animali, sulla base delle proprie esperienze dirette». Non vi è uno sfruttamento della natura, così come siamo abituati noi c.d. civilizzati a compiere, non è un rapporto di sudditanza uomo-mondo naturale. C’è una collaborazione, un dialogo equilibrato, una relazione da pari a pari tra questa etnia e tutti gli esseri viventi della foresta. Loro vogliono conoscere, vogliono comprendere, vogliono esplorare. Tutte azioni che noi non compiamo più da molto tempo. Dice Milliken: «(I Yanomami) Usano il veleno per catturare i pesci nei fiumi, riducono la popolazione dei mammiferi, abbattono alberi e a volte spogliano interi palmeti per ricoprire i tetti delle loro case, ma quel che conta è che prendono dalla foresta solo quanto occorre per sopravvivere. E lo fanno in modo ponderato, basandosi su un’approfondita comprensione di quello che la foresta può o non può dare. Questa è, a mio parere, la differenza fondamentale, ed è qualcosa da cui abbiamo da imparare. È questa consapevolezza, unita al fatto che l’ambiente e la terra sono così tanto radicati nella loro cultura materiale e spirituale che l’idea di distruggerli risulta per loro totalmente ripugnante».
Il libro che mi accingevo a recensire, “La caduta del cielo”, narra la storia di uno sciamano yanomami, Davi Kopenawa, ed è un viaggio molto lungo (il libro è un grosso volume di mille pagine, non proprio un formato da viaggio in realtà!) all’interno di questa popolazione, delle vicissitudini che l’hanno decimata tra malattie occidentali e massacri, delle enormi difficoltà e sofferenze nello scontro con la civiltà, ma anche del bellissimo e profondo messaggio che attraverso la loro vita adesso possono dare al mondo. Non è troppo tardi, sono fiduciosa. Siatelo anche voi, andate a vedere su internet come sono belli e luminosi i volti degli Yanomami, quanto verde lussureggiante li circonda, e se ne avete il coraggio cominciate a leggere il tomo “La caduta del cielo” e iniziate a fare qualche piccolo cambiamento nella vostra vita (magari una passeggiata nel bosco senza rumore e con rispetto oppure lasciare che sia la natura e non voi a dettare il ritmo alla giornata...) per ritrovare quel contatto con la Pacha Mama, anzi no, per abbattere la divisione con un mondo che invece è tutto contenuto dentro di noi ma col quale abbiamo deciso, un giorno tanto tempo fa, di non voler avere più niente a che fare.
Silvia Tusi@Spazio Nagual
Foto: Indiani Yanomami, villaggio di Demini, Brasile. © Fiona Watson/Survival
Fonti: https://www.survival.it/articoli/3250-conoscenze-botaniche-yanomami
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